Quello che accaduto alla Fontana della Barcaccia di Roma deve farci riflettere sul significato della Fontana e di tutte le presenze storico-artistiche non a Roma o in Italia, ma nel mondo, e sull’assurda indifferenza che coglie la maggior parte della popolazione mondiale di fronte alla rovina, spesso violenta, di tali presenze.

Alcune delle città più belle del mondo, e per belle intendo anche in grado diraccontarci la storia dell’umanità attraverso gli strati dalle quali sono composte, cadono a pezzi sotto rivolte e guerriglie, vere e proprie guerre civili, progressiva incapacità di prendersene cura, vandalismi. Per me, che ho avuto occasione grazie al mio migliore amico di passarci alcuni giorni, simbolo di questo scempio è Damasco: pensare che tutta una serie di strade, di luoghi, di spazi urbani e di spazi sacri, di segni dell’umanità, di percorsi millenari non esistono più perché devastati dalla furia bellica ancora oggi, non mi da pace. Ma certo, queste sono cose sempre accadute.

Non sempre però è accaduta la sostanziale indifferenza nei confronti di questa perdita. Si sente l’offesa, ma non si percepisce il dolore.

Oggi, in effetti, la cronaca di queste perdite riflette la predominante filosofia del consumo. Questo significa che anzitutto si tiene conto del numero: dei morti, delle bombe, dei giorni, dei feriti, dei turisti che mancheranno, degli arrestati: al di fuori della pretesa (impossibile) di una onnipotenza della misurazione quantitativa, non siamo in grado, sembra, più di andare. E se il danno va valutato quantitativamente, il secondo passo è ovviamente quello di contabilizzarlo economicamente. Questo è sacrosanto e doveroso, purché non ci distolga da un elemento fondamentale: quello che non avremo più, cioè la scomparsa di un segno della nostra storia e della sua funzione, che è la costruzione della nostra identità.

Questa è una cosa che interessa sempre meno.

Il fatto che una moschea, una fontana, un quadro non si possano effettivamente “consumare” (prendere-mangiare-espellere) ci mette in difficoltà, perché utilizziamo criteri esclusivamente legati alla capacità di consumare e di essere consumati, alla durata di un consumo, al costo di un consumo, al lasso di tempo che passerà prima di voler consumare qualcosa d’altro.

Dove mettiamo quindi queste cose che perdiamo, ma che d’altra parte non avremmo mai potuto consumare? Al massimo, riusciamo a metterle nel novero delle “cose che ci permettono di attirare in qualche modo consumatori che consumano qualcosa d’altro”. Molto, molto difficilmente riusciamo a metterle in uno spazio mentale dove teniamo la nostra qualità, quello che non è misurabile, quello che ci definisce.

Ora, facciamo un esperimento e pensiamo, davanti all’immagine ad esempio della Fontana del Bernini, a cosa significhi quella fontana non solo all’interno della vicenda storico-artistica del mondo. Affiorano davanti ai nostri occhi milioni di persone che per secoli l’hanno affiancata, vi si sono seduti, bagnati, l’hanno interpretata e considerata in ogni epoca in maniera diversa, migliaia di famiglie che si sono fatte fotografare con quella fontana alle spalle e ora tengono appeso al frigorifero quella polaroid sbiadita, migliaia di studenti di pittura che l’hanno ritratta pensando – sognando – che si trattava di un esercizio propedeutico per avvicinarsi ad essere artisti veri, milioni di insetti che vi si sono posati e di batteri e di micro organismi che si sono generati in quelle acque, litri litri e litri di acqua che l’hanno abitata, acqua erogata grazie al lavoro di milioni di mani che nel corso del tempo hanno aperto e chiuso rubinetti in qualche anfratto della roma antica, e magari centinaia di viaggiatori del Grand Tour che si sono fermati a pensare se scriverne, o tenere per sé l’immagine della fontana all’alba, o al tramonto, e milioni di baci e litigi e di scelte d’angolazione da parte dei fotografi… Come una persona, ma con molti, molti anni in più, la fontana è depositaria di una qualità che sintetizza tutti gli incontri che ha fatto.

Ma noi non ci pensiamo.

Sono sempre stato contrario alla protezione delle opere urbane nel senso della cristallizzazione, della musealizzazione forzosa, della scomparsa del loro ruolo nella vita cittadina: me lo ha insegnato un grandissimo storico dell’arte, Franco Barbieri, e sono ancora convinto che l’opera debba vivere all’interno delle dinamiche urbane, non dentro una teca infrangibile che le impedisce di comunicare e di trasformarsi, e che le città non debbano mai smettere di essere città. Ma il problema non è nell’opera, come, a volte, il problema non è nel malato ma nell’idea di malattia e di cura che si ha. Il problema è nel fatto che noi siamo sempre meno in grado di leggere la qualità preziosa di quanto ci circonda e ha circondato i nostri cugini, zii, nonni, amici, vicini, meno vicini, altri come noi, una parte insomma dell’umanità che ci compone. Sappiamo contare, ma non sappiamo rac-contare. Diventiamo sciatti, e questa sciatteria contagia anche il nostro modo di intendere l’arte e la bellezza, la memoria e la storia. Così, quando un manufatto viene distrutto, pensiamo sia meno importante di altre cose, e siamo incapaci di provare dolore, vero dolore, nel vederlo infranto. Così, di fronte a un manufatto, perdiamo il rispetto per il suo valore artistico, e per le persone che lo hanno pensato, realizzato, ma anche popolato di sensazioni ed emozioni. Eppure, l’opera dell’uomo è proprio quella, non altra.

Se un giorno perdessimo del tutto la cognizione di quel che significano i segni che ci circondano – cognizione che ancora si legge nell’empatico sguardo della persona fotografata – allora non avremo più coscienza di quello che siamo, perché la storia ci conferisce identità, e la storia ha bisogno di segni. Saremo esseri che nascono, consumano, muoiono.