Valeriano Trubbiani era un uomo schivo. Non amava le celebrazioni e, come mi ricordava ieri suo figlio Massimiliano, si defilava appena possibile persino dalle inaugurazioni delle sue mostre. Al di là dei suoi due grandi amori, la sia arte e la sua famiglia, coltivava profonde e sincere amicizie, che curava all’interno di una sfera privata, intima, resa preziosa da lettere bellissime, a partire dalla calligrafia. In piazza, metteva solo le sue sculture.
Credo di averlo studiato tanto a fondo, per esorcizzare una bellissima opera che mio padre, uno dei suoi amici, teneva nel nostro appartamento quando ero piccolo. Si intitolava Pianto greco, e mi terrorizzava, per via dei tanti occhi di bambola che si aprivano e chiudevano sopra lacrime pesanti come macigni. Me la portai a Milano, e in giro in alcune case, continuando a rispettarla e, forse, a temerla.
Trubbiani era un artista complesso, e particolarmente ricettivo. Viveva e lavorava ad antenne levate, e intuiva prima degli altri ciò che stava per accadere nel mondo. Era curioso, e restituiva la sua curiosità con forza ed eleganza. Le sue opere arrivavano così tanto al punto cruciale dell’esistenza, che era obbligato a inserire qualche scherzo, nel titolo, o in un dettaglio, per non farci sprofondare nell’angoscia che l’arte è sempre chiamata a svelare e velare al tempo stesso. Nei suoi scherzi, si celava il suo profondo amore per l’umanità.
Preparavo la mia tesi di laurea sulle sue opere degli anni Novanta quando un pomeriggio, nella penombra della sua sala da pranzo, intrecciando le dita e bevendo una Fanta – mi offriva sempre, e ancora poco tempo fa, bibite in lattina come fossi un bambino – mi disse che non capiva gli scultori che disegnavano le proprie opere, per poi lasciarle fare ad altri. Disse che non si poteva mai sapere cosa la materia avrebbe detto alle mani, e come le avrebbe indirizzate. Che la mente non comandava la materia, ma l’intero corpo dell’artista ci dialogava di continuo. Mi venne in mente, allora, il mio professore più grande, Franco Barbieri, che ci raccontò a lezione del giudizio di Michelangelo su Tiziano: sarebbe un bravo pittore, se imparasse a disegnare. Barbieri ce lo raccontò per mostrarci come il grande artista abbia bisogno di essere convinto della strada che ha intrapreso. Se un grande artista è onesto, ci insegnò, non elogerà mai un artista tanto differente. Queste due scene (Trubbiani nella sala da pranzo e la lezione di Barbieri) mi tornarono in mente poco tempo fa, in due diverse occasioni. Nella prima, Enzo Cucchi commentava alcuni lavori di Trubbiani; nella seconda Valeriano Trubbiani commentava alcuni lavori di Cucchi. Mi trovai a sorridere, e a dare ragione (in silenzio) al mio vecchio professore.
Ancona è una città fortunata, noi siamo tutti fortunati, perché siamo stati vicini di casa di un artista così grande, e importante per il mondo della scultura, che a volte non ce ne siamo nemmeno resi conto. Enrico Crispolti, Luca Massimo Barbero, e tanti altri grandi storici dell’arte me ne hanno parlato nel corso degli anni. Uscivo dalla città, e le persone del mondo dell’arte mi parlavano e parlano di lui. Il suo carattere intimo, il suo rispetto della sfera privata, la sua schiettezza, la sua grande umanità e la generosità (che alla fine, nella vita, quel che conta è solo se si sia stati generosi o no) non devono trarci in inganno, e non dobbiamo mai dimenticare la sua grandezza e il fatto che lui ci supererà nel tempo, nei decenni e nei secoli, come spetta ai grandi. Ciao Valeriano. Ciao.