Abbiamo scritto un rendiconto di fine mandato. Pieno di numeri. Sta per uscire. Ma sulle spalle di quei numeri vivono sguardi, idee, gesti, speranze, tentativi, sperimentazioni, fallimenti, mugugni e sorrisi. E decine e decine di persone coinvolte. Credo di dover rendere conto a questo mondo e tento di farlo qui.
Sono passati 10 anni dal giorno in cui Valeria mi propose di fare l’assessore alla cultura. “Ma ne sei certa?” risposi “Guarda che io conosco quasi tutte le maestranze del teatro, ma non ho mai visto in faccia il direttore.” “Questo potrebbe essere un vantaggio” disse lei. Capii presto perché. Si riferiva alla fiducia, fiducia che molte persone mi concessero. Fiducia, poi, in parte erosa dall’esercizio di governo, che a volte costringe a scelte spiacevoli. Ma, anche, fiducia che mi ha permesso di ascoltare tante voci sincere, e quindi di introdurre una strategia nella politica culturale di Ancona.
Prima ancora di essere assessore, durante un incontro pubblico paragonai la cultura cittadina a un corpo (ossa: istituzioni; nervi: festival e imprese culturali; circolazione: associazioni). Qualche mese dopo la nomina, affermai con convinzione che, in una regione di un milione e mezzo di abitanti, Ancona aveva il compito di fare la città, cioè di produrre cultura. Di farla nascere continuamente. Mi sembrava di dire una gran cosa, giuro. Non avevo, però, ancora capito il nocciolo della questione: il come. Come Ancona poteva generare e produrre continuamente cultura, in un territorio che ne aveva (e ne ha) disperatamente bisogno? Lo capii praticando questo strano mestiere (che è un mestiere e che si pratica, ebbene sì): Ancona poteva farlo assecondando il proprio carattere, la propria attitudine, la propria natura. Che è la natura di un porto, di una città circondata dal mare, quindi di un luogo di incontro, di incrocio, di attraversamento, di relazione. Generare e produrre, qui, significa far incontrare le persone. Anche quelle che, magari, sono venute qui per altro. Farle incontrare continuamente.
Questo rende Ancona molto attuale: oggi, la generatività è estremamente più importante della produzione culturale tradizionalmente intesa. La possibilità di incontrarsi, meticciarsi e far nascere continuamente cose è una cifra contemporanea. Sotto questo aspetto, la politica culturale italiana è ancora indietro, e i centri locali, alcuni centri locali perlomeno, possono aiutare la trasformazione.
Ma bisogna scegliere una strategia, e questo costa fatica e impone dei rischi alla politica. In Italia, la politica utilizza spesso la cultura come strumento di consenso, il che è il contrario esatto di una strategia. Giuste o sbagliate che siano state le mie scelte, io ho avuto la fortuna di poter seguire una strada (e di tornare sui miei passi più di una volta) senza che Valeria o chi per lei mi inducesse a compromessi. È raro, e ne sono grato.
Ho scelto, anzitutto, di che cultura occuparmi: una cultura che è diritto, che è possibilità, e che deve concretamente migliorare la vita delle persone. Non credo che oggi una cultura diversa abbia senso. Per citare Luigina Mortari “un libro che non migliora la società, è un libro inutile” e non molto diversamente parlava Dario Fo ricevendo il Nobel: “una forma d’arte che non parli del proprio tempo è inutile.”
Con questa idea di cultura, ci siamo dati due obiettivi principali: favorire e generare un fermento cittadino, abbandonando la prassi che vuole, di solito, nelle città di provincia sempre i soliti noti ad occuparsi di certe cose, ma anzi creando le condizioni di possibilità per tante persone; trovare un posto stabile per Ancona nel panorama culturale nazionale, non solo come sede del Teatro (che ha già un posto d’eccellenza), ma come città.
Idea di cultura + obiettivi hanno dato vita a una strategia. Diciamolo subito: pensare le strategie così, sulla tela bianca, non è difficile difficile. Il problema è pensarle con tutti i limiti che la realtà ci impone. In questo, ad alcuni antichi maestri (ho una certa età) si è aggiunta Valeria, che mi ha insegnato con la sua pratica di governo il costante richiamo al principio di realtà: il massimo di giustizia sociale, in questo preciso momento, con gli strumenti che abbiamo a disposizione. Quando ne ho parlato a un artista, mi ha detto “bisognerebbe scriverlo negli statuti dei Comuni.”
Che, poi, la strategia scelta non è difficile da dire: inizia con una grande centralità dell’ente pubblico, che serve ad aumentare le attività, a proteggere le fragilità e superare le debolezze del sistema, e ad entrare in contatto con il panorama culturale nazionale con continuità; continua con il monitoraggio: quali sono le conseguenze di quello che stiamo facendo, cosa è nato, chi ha aperto un’attività, chi ha fondato un centro, chi ha proposto una nuova azione, di cosa quindi c’è bisogno per andare avanti; prosegue ancora (e siamo in questa fase) con una serie graduale di passi all’indietro dell’ente pubblico, che lascia la scena alle realtà che nel frattempo sono nate o si sono rafforzate, hanno preso fiducia e sicurezza, hanno ora solo bisogno di sostegno. Così l’ente può dedicarsi a ciò che gli spetta per forza: i grandi eventi, le istituzioni culturali che generano a loro volta nuove possibilità informali. E sostenere i soggetti che fanno ogni giorno la cultura in città.
Troppo astratto? Faccio un esempio pratico. Il Comune fa una call per attività artistiche in un certo spazio, questo genera incontri, attira alcune figure, fermenta il senso di possibilità. Così, alcuni giovani che hanno partecipato decidono di avviare in città un nuovo progetto, investendo del loro. Il Comune li aiuta come può, e così sono loro, la volta dopo, a fare la call, mentre il Comune ne farà un’altra internazionale che spingerà altri soggetti eccetera eccetera eccetera eccetera.
Questo percorso (idea di cultura – obiettivi – strategia) comporta scelte che, comunque vada, si pagano care.
Per prima cosa, in un centro di soli 100.00 abitanti, devi individuare un oggetto di riferimento, che deve essere un oggetto di amore per la città, più di amore che tutti gli altri, un oggetto capace di sprigionare il senso di possibilità: ti tocca puntare all’inizio soprattutto sulla Mole, sapendo che facendolo vai incontri a diversi guai: dovrai negare gli spazi ad attività non coerenti; dovrai gestire la crescita di un colosso di 20.000 mq senza risorse ministeriali o fondazioni abbienti; darai l’impressione di trascurare il resto della città. Accetti il rischio, perché quello è un oggetto unico in Italia, e investito di vero amore da parte di tantissima gente. Devi solo fare in modo che l’energia che sprigionerà pervada via via l’intera città, e segua due strade differenti: quella formale (le istituzioni culturali) e quella informale (la comunità culturale).
È un continuo maneggiare una materia incandescente, anche un tornare sui propri passi perché si stanno mettendo in discussione certe forme organizzative e di governance che questo Paese si porta dietro da tanto tempo e che oggi, dopo la pandemia e nel pieno delle sue conseguenze devastanti, sono a mio avviso totalmente da rivedere.
Un maneggiare impossibile senza due tipi di persone: quelle che si sono fidate e sono venute ad attivare energie, sperimentare cose, collegandoci con il panorama culturale nazionale e internazionale. E quelle che nel territorio insistono a reagire a un mondo che si illude di poter fare a meno della cultura, ma non capisce che potrà illudersi solo finché la cultura esiste, perché funziona come con l’ossigeno, puoi pensare di non respirare, solo finché l’aria ti entra nei polmoni.
La forza di certa provincia italiana è proprio questo stare nel mezzo: Ancona è un capoluogo non onnivoro, dove è possibile sviluppare progetti nazionali con maggiore libertà e bellezza che nelle metropoli, e progetti del territorio con maggiore agio e respiro che nei borghi (e poi qualcuno diventa nazionale). Questo crea, paradossalmente, un numero e una qualità maggiore di relazioni rispetto ai grandi centri urbani.
Può accadere: se si rimane al confine tra i mondi, e si ha l’aiuto di molte persone diverse. La prima telefonata che feci dal fisso dell’ufficio fu a Carlo Giantomassi e Donatella Zari, i più grandi restauratori in circolazione, che vedevo bambino girare per casa dei miei, e che per amore di Ancona mi sono stati al fianco nell’idea di riaprire la Pinacoteca. Molte altre le abbiamo fatte con tecnici, fonici, trasportatori, allestitori, promoter, produttori che spesso hanno gettato il cuore oltre l’ostacolo, per fare accadere le cose, per fare la cultura (che è una cosa che si fa, esatto), e molte ancora con le artiste e gli artisti di cui, fateci caso, si parla sempre poco.
Non scrivo, oggi, per dire che la strategia è quella giusta, per dire “guardate quanto siamo stati bravi”. Ci sono buche anche qua, non solo sull’asfalto. Non essere riuscito a rivitalizzare la biblioteca comunale, e anzi averne dovuto affrontare la chiusura temporanea, è una ferita che il bel progetto di ristrutturazione non rimargina, perché nel presente le persone che ne hanno bisogno sono in sofferenza. E la difficoltà sempre maggiore di dare spazi a chi vuole solo fare cultura, è un problema che mi assilla, dedico ore ed ore a riunioni con i tecnici cercando di ribattere colpo su colpo a una normativa che, a breve, se si va avanti così, pretenderà la licenza di nuoto da chi d’estate vuole farsi un tuffo al mare. Ci sono molte sfide pratiche difficili, e ci sono molte cose non riuscite, ma queste sfide sono più facili da affrontare all’interno di un cammino strategico in cui credo molto, e che spero di aver avviato. Di certo, dovranno essere le priorità prossime.
Ci sono, però, anche sfide politiche. Non solo, infatti, sembra proprio che agli enti che ci stanno sopra non passi per l’anticamera del cervello destinare risorse alla cultura in maniera logica (in realtà, spesso nemmeno gli passa di farlo in maniera illogica). Ma è proprio la testa di molte persone che pare ancorata a pregiudizi di cui credevamo d’esserci sbarazzati. Tanto che, e con questa vi lascio, mi è capitato di recente in una sede istituzionale di sentire da una voce istituzionale la seguente frase: “eddai, che ci vuole, un artista che si esibisce gratis lo troviamo, ce ne sono tanti!” Daje Alla Cultura, allora!