Sono arrivato a Genova l’alba successiva alla morte di Carlo Giuliani. Ero solo. Una giornata calda e una lunga camminata per raggiungere il centro di quel che stava accadendo, ragazzi si gettavano dagli scogli. Avevo cessato di partecipare alle grandi manifestazioni da tempo. Gestivo il mio locale, cercavo strade diverse e altrettanto (a mio parere) politiche, come ho sempre fatto. Tuttavia avevo il mio bagaglio di esperienza, avendo partecipato, tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta, a molte manifestazioni, specie nel periodo intenso delle occupazioni universitarie milanesi della Pantera, in cui rivestivo un ruolo ben definito.
Durante le manifestazioni sono sempre stato partecipe, relativamente defilato, attento, curioso. Certe volte bisognava solo fare attenzione. Altre volte bisognava far capire a chi stava per dar fuoco a un’auto che non era il caso. Certe volte non ce n’era: arrivavi, ma sapevi che qualcosa poteva succedere. Questa gestione delle manifestazioni da parte di una sinistra ancora troppo innamorata degli anni Settanta ma incapace di organizzarsi per tutelare i singoli individui, specie i più giovani, è stata una delle ragioni (non la più importante) per cui mi sono allontanato da un certo mondo. Strideva, allora, nella mia mente impegnata, l’idea di poter riprendere schemi così vecchi per fronteggiare problemi così nuovi, soprattutto quando non si era nemmeno più in grado di interpretarli, quegli schemi. Figuriamoci i problemi.
A Genova, le cose erano per un certo verso diverse. Ma non del tutto. Dopo aver incontrato alcuni amici (ed essermi fatto prestare dei soldi, perché ero partito da solo all’improvviso nella notte), ho continuato a partecipare in solitario a quando accadeva – o meglio, a parte di quanto accadeva, perché contemporaneamente accadevano molte cose, una contraria all’altra. Una coscienza di morte aveva vegliato tutta la notte sui manifestanti, e rendeva il clima irrespirabile. Tuttavia, era evidente già quel giorno che Genova stava segnando una cesura definitiva e fortemente voluta tanto da chi perseguiva gli intenti del potere costituito quanto da chi deteneva le chiavi passepartout della conduzione della protesta (male)organizzata. In mezzo, un mucchio di gente.
La città era totalmente militarizzata, ed è inutile ripetere quello che atti di tribunale, video, fotografie hanno detto più volte: la difesa dell’ordine costituito è stata esercitata attraverso l’offesa con metodo e questo ha disegnato una frattura nella storia del confronto di piazza. Non perché fossero cose nuove, sia chiaro: anche io, nella mia piccola esperienza, avevo visto molto da vicino momenti altrettanto duri, a Milano e a Roma in particolare. Avevo già assistito a tattiche di vario genere, assalti, trabocchetti e così via. Diverso invece era il contesto, cioè una colossale manifestazione senza un chiaro indirizzo politico, ma con un indirizzo socio-economico condiviso anche se variegato, che vedeva assieme migliaia di persone completamente differenti tra loro. Manifestazione la cui unicità (che consisteva, appunto, nella molteplicità di punti di vista) fu del tutto ignorata e che fu stretta tra l’incudine dell’ordine costituito e il martello di una sinistra “alternativa” che non sapendo più dove andare a sbattere la testa le s’attaccava come un parassita…
Non ho la sfera di cristallo, e non so come sarebbe andata se quella stessa sinistra si fosse messa in testa di studiare formule nuove, dato che nuovi erano i temi, e di ascoltare di più le tante persone che – più o meno consapevolmente – andavano riunendosi attorno a determinati problemi da risolvere. Che ci sarebbe stata aria di conflitto ugualmente, è evidente. D’altra parte, il conflitto è anche un elemento di crescita indispensabile.
Ma il conflitto trovato a Genova non era un elemento di crescita, bensì era la furia (non cieca) di due ordini incapaci di guardare al futuro e insofferenti di fronte alla necessità di rimettersi a studiare perché il cambiamento epocale era troppo grande per essere affrontato secondo i medesimi schemi. Nessuno dei due poteva vincere, e difatti nessuno dei due ha vinto, nemmeno con il senno di poi.
Le cose, a parte questo, sono andate come sempre, ma con maggiore metodo: da una parte attirare allo scontro; dall’altra non controllare le reazioni; da una parte provocare; dall’altra mandare avanti i “caratteriali” e tra i capi fare un passo indietro, si sa mai (questo anche, lo avevo visto mille volte). Organizzazioni vecchie e strutturate hanno eretto due muri contro una meno organizzata ondata di cambiamento che, chissà, si sarebbe infranta altrove, ma ha avuto una precoce lezione di disincanto che cara le costa ancora.
Un disincanto che ha aperto poi le porte a forme di qualunquismo e di sciatteria politica che allora non si sarebbe potuto immaginare, e che hanno risucchiato tanti giovani (provenienti da ogni parte) nel vortice della protesta minuziosa e della pancia meritevole di parola più del cervello. Un disincanto che ha relegato la politica a argomento secondario rispetto all’irritazione e all’egoismo, al faidate del network, alla formazione su wikipedia, in una parola all’ignoranza. Un disincanto che in un colpo solo ha frammentato il rispetto, dove c’era, per le istituzioni e la fiducia, dove c’era, per i movimenti, fino al punto che “movimento”, nell’indifferenza generale, è diventato il nome di un partito capace di incanalare le ossessioni e le paranoie di ognuno senza bisogno di farne altro, di trasformarle in qualcosa di costitutivo.
Quella sera, non ho potuto prendere il mio treno per via di fermi che venivano eseguiti sulla banchina e che mi sembravano del tutto casuali, sono salito su un treno meno sorvegliato e sono andato a Milano, a casa della mia più cara amica e del suo compagno. Per quanto avessi vissuto una giornata che sfuggiva a qualsiasi senso di ordine, fatta di fughe da tutti e da nessuno, di incontri improvvisi, di paura e tensione, di consapevolezza dell’assenza di una Legge, per quanto avessi ancora i nervi a fior di pelle, per quanto a causa di un contesto così malsano fosse morto un ragazzo (non sapevo, in quelle ore, della Diaz), pensavo al futuro, cercando di immaginare il peso di Genova su di esso. Oggi posso dire che è stato un peso enorme che ci portiamo dietro, ma la speranza me la danno i tanti giovani di allora che, fuggiti da forme di conflitto stereotipate e ancora in voga, si sono sparpagliati a fare cose che cambiano il pianeta, assumendosi in proprio le responsabilità che altri dicevano di avere, ma a cui nessuno ha mai davvero portato rispetto. C’è un futuro, segnato da Genova che è più di una cicatrice, più di un buco nero, più di una parentesi, ma una tappa fondamentale che ha messo in luce l’incongruenza di un paese legato, da una parte e dall’altra in egual modo, a stereotipi non funzionanti, che portarono morte e terrore e che alcuni si ostinano a perseguire senza voler fare i passi avanti necessari. I tanti che si stanno assumendo le proprie responsabilità direttamente nel “fare”, saranno il seme di un nuovo pensare.