Qualche volta mi capita di pensare alla singolarità del ruolo in cui mi trovo. Anche per questo ho deciso di aprire questo blog: per condividere alcune riflessioni che maturano via via che si procede nel cammino, riflessioni di fondo, che mi sembrano utili, o importanti. O che semplicemente non voglio tenere per me.

Ad esempio, un tema che mi sta particolarmente a cuore è quello della Traduzione.

Si tratta di un compito arduo e necessario: nel ruolo in cui ci troviamo, siamo chiamati ad operare in due spazi linguistici distanti, quello dell’amministrazione e quello della realtà quotidiana, e quando dico spazi linguistici non mi riferisco tanto al lessico e alla sintassi utilizzate, che pure sono estremamente diversi, ma soprattutto alle dinamiche con cui si definiscono, e quindi si costruiscono, le cose.

Quando sono arrivato nel mondo dell’amministrazione ho dovuto apprendere in fretta una terminologia e certe dinamiche che dall’esterno non è semplice comprendere. Alcune di queste sono causate da un avvitamento su se stessa della burocrazia (non ditelo a me…), ma la maggior parte in realtà sono necessarie, così come è necessario che i linguaggi siano differenti: si possono smussare alcune asperità, si può rinunciare a una sintassi talvolta ottocentesca, così come una persona può arrivare a limitare le espressioni dialettali o le volgarità, o correggere una R moscia (sempre che lo voglia). Ma il linguaggio dell’amministrazione è endemicamente diverso da quello della realtà quotidiana, per la stessa ragione per cui il mare è diverso dai disegni che lascia sulla spiaggia. La realtà di un’amministrazione è, in altre parole, il momento che determina la realtà quotidiana e dunque, per determinarla, deve esserle “altra”.

Quello che molte persone chiedono è la riduzione della distanza linguistica (che è una distanza di fatto, come ho detto, non riguarda solo l’utilizzo di parole diverse). Sino a un certo punto questa riduzione può naturalmente esserci, e spetta soprattutto agli enti locali portarne avanti la causa. Ma oltre quel punto, dobbiamo essere consapevoli che quanto ci manca non è l’allineamento – impossibile – di due spazi linguistici diversi, ma la traduzione, esattamente come quando si viaggia tra un paese e l’altro.

La traduzione, però, spetta ad alcuni soggetti che oggi sono chiaramente in sofferenza. Anzitutto la politica, che a ben vedere nasce anche per svolgere questo compito: il politico vive la propria esperienza di servizio alla collettività rimanendo sostanzialmente sempre in viaggio tra i due paesi dalle lingue diverse e per essere onesto intellettualmente non deve mai cedere alla tentazione di scegliere uno dei due linguaggi (uno dei due paesi) ma deve appunto tradurli l’uno all’altro continuamente, così che la distanza si riduca proprio nel punto in cui egli o ella si trova.

Non è affatto una cosa semplice, perché da un lato lo si tira per la giacca affinché sia “uno di noi” e, dall’altro, lo si avviluppa dinamiche amministrative singolari. Non è affatto facile soprattutto in mancanza di un ingrediente fondamentale, la Fiducia che, sola, gli permette di compiere il lavoro di interprete. In fondo, chi ricorrerebbe mai a un interprete di cui non si fida?

La mancanza di fiducia ci consiglia di rinunciare all’interprete e quindi alla traduzione; la mancanza di traduzione ci consiglia di chiudere i confini e di metterci i soldati a guardia. Questo vale tra nazioni, tra villaggi, tra famiglie di un condominio, e tra amministrazione e mondo quotidiano. Bisogna compiere molti sforzi per tradurre oggi la pratica amministrativa alla realtà quotidiana e viceversa, ma bisogna farlo, perché in caso contrario, come nei rapporti tra Stati vicini, si rischia la chiusura o persino il conflitto.

Questa traduzione ha avuto, per molto tempo, un altro interprete accreditato: il giornalismo. Se io non mi fidavo poi così tanto dell’interprete di turno, potevo però fidarmi di un giornalista o, qualche volta, di più giornalisti che mi avrebbero aiutato a leggere tra le righe di un linguaggio differente dal mio. Naturalmente, come ogni cosa, anche il giornalismo è impuro, e anche il giornalista del quale mi sarei fidato avrebbe avuto la sua opinione e avrebbe tradotto in base a quella. Ma sceglievo di fidarmi di lui perché, dopo una serie di valutazioni, riconoscevo di avere un’opinione non troppo diversa dalla sua rispetto a molte cose. Così, una grande crisi, un momento politico particolare, una questione economico-finanziaria e mille altre cose potevano arrivarmi filtrate da un editoriale, per dire, di Eugenio Scalfari che non mi “convinceva” ma mi permetteva di comprendere meglio una serie di attualità.

Oggi il giornalismo ha perso questa funzione di parziale filtro linguistico tra i due mondi, mentre ha assunto il ruolo, da un lato, di latore di messaggi e, dall’altro, di cronaca ridotta a termini quantitativi. Esso è rientrato appieno nella crisi dell’intermediazione che, chi ha studiato arte lo sa, non sempre è da considerarsi crisi positiva.

In effetti, il vuoto di fiducia nei confronti della parte politica e di garanzia da parte del giornalismo lascia questi due mondi dalle lingue differenti fermi lì ai confini, a guardarsi un po’ in cagnesco, proprio perché – o anche perché – privi di reciproca traduzione e, quindi, di qualsiasi forma di dialogo. Questo non significa che con una traduzione, quale che essa sia, sarebbero tutte rose e fiori, ma si aprirebbe un fronte di discussione che permetterebbe, sicuramente, di ridurre l’altezza delle roccaforti.

Un obiettivo che chi si trova a ricoprire un ruolo come il mio deve tenere sempre a mente: tradurre, tradurre, tradurre.

PaAssessore