Quanto è difficile

È molto difficile per me. Lo dico con il cuore, come va fatto di questi tempi. Sono uno che scrive, e vorrei scrivere, ma anche rallentare il battito, per ricordarmi che la scrittura di un trauma richiede un tempo di latenza. Sono, poi, un operativo: ripeto come un mantra che la cultura è una cosa che si fa. Improntiamo la politica culturale di una città, a torto o a ragione, su questo principio, senza permettere alle interminabili chiacchiere [spesso utili solo a pagare chi le chiacchiere le fa] di prendere il sopravvento. L’arte si fa. La letteratura si fa. Il teatro si fa. La filosofia si fa. Sono tutte pratiche. Hanno a che fare con il bisogno, e con il desiderio. Il bisogno di avere un senso oltre la propria esistenza; il desiderio che una persona in carne ed ossa nutre nei confronti della musica, della pittura, della scrittura, del teatro e così via. Ho appena terminato di parlare al telefono con un giovane attore, mi ha letto due poesie. Gli ho detto che quello che conta è il suo desiderio di essere un attore. Che da quel desiderio dipenderà il teatro di domani, non dai GigaByte a disposizione per lo streaming.

Il mio attuale lavoro è quello dell’assessore. In questi mesi, un assessore si danna l’anima per salvare il raccolto e proteggere i campi. In questi mesi, un assessore legge anche i contributi che figure della scienza, della cultura, della poesia, dell’arte, del sapere e della ricerca mettono a disposizione del mondo quasi istericamente, per cercare di far sì che il mondo abbia contezza maggiore della sua complessità e fragilità, e non la rinneghi sull’altare della semplificazione a tutti i costi. Ho letto testi bellissimi (molti, si trovano qui). Riflessioni di grande profondità. E ovviamente posizioni che non condivido affatto. Nel mio piccolo, ho riflettuto a mia volta, cercando di tenere in equilibrio questa professione bellissima con i pozzi cui attingevo.

Numeri e Nuvole

Mille voci si sono sollevate a difesa della cultura. Si sono dati numeri: 92 miliardi di euro il valore aggiunto del comparto culturale. 1.500.000 mila persone impiegate. 6,1% del prodotto interno lordo. Le voci dicono: difendiamo questo patrimonio. Ed è giusto. La prima cosa che abbiamo fatto, con altri assessori di capoluogo, è stato proporre al Ministro una strategia per chi lavora nella cultura: per tutelare i tecnici, gli artisti, gli attori come quello con cui ho parlato dieci minuti fa, il personale dei musei quasi sempre (ma non segretamente, diciamocelo) sottopagato. Ma quale effettivo peso abbiamo, noi che facciamo cultura nel contesto economico del Paese, per pretendere una protezione così speciale?

Anni fa, in consiglio comunale, mi capitò di citare un Dossier della Banca d’Italia che testimoniava il peso economico del settore culturale, e servì a tutti noi per rispondere ai deliri nati da una lunga e bruttissima epoca per la cultura italiana, quella dei governi Berlusconi e della famosa affermazione di Tremonti, secondo cui Con la cultura non si mangia. Affermazione che scatenò una lotta, lotta che si giocò sui numeri: il compito era dimostrare al Ministro che, invece, di cultura si mangiava. Il che, naturalmente, è vero: di cultura mangiano gli attori, i registi, gli scenografi, i tecnici, i fonici, e via dicendo. Per poi arrivare a negozi, ristoranti, imprese tecnologiche, sarti, truccatori e via dicendo. E ancora, i sistemi turistici di un Paese attrattivo anche per il proprio straordinario patrimonio e per la verve creativa. Un buon metodo (che per fare massa critica include, ad esempio, il settore “videogiochi e software”) per dimostrare che di cultura si mangia e far passare per fesso il Ministro. Ma un metodo da utilizzare con cautela, e oggi sappiamo perché.

Tanto o Poco?

Il Ministro, infatti, non aveva tutti i torti: se è vero che di cultura si mangia, è altrettanto vero che di altre cose si mangia molto di più. E si mangia in molti di più. Il fatturato (molto significativo, in una Regione di 1 milione e mezzo di abitanti) del nostro Teatro di Produzione (Marche Teatro) è di 5 milioni e mezzo, con 31 dipendenti (bravissimi) a tempo indeterminato. Gli impiegati nel settore culturale, nelle Marche come nel resto d’Italia, sono il 6% del totale. Elica, per citare un’impresa marchigiana rilevante, aveva ricavi nel 2018 per 472 milioni di euro, con 4.800 dipendenti. Cantiere delle Marche, per dirne un’altra, 43 e rotti milioni di euro. Non c’è da scandalizzarsi. C’è, piuttosto, da chiedersi a che gioco ci siamo messi a giocare, e se ci convenga.

Ma cerchiamo di capire: in un periodo come quello che va dalla metà degli anni Ottanta al primo decennio del 2000, è probabile che la sola speranza per il settore culturale fosse proprio quella di rispondere a colpi di numeri. Di sostenere il peso economico del settore, dal momento che solo il peso economico era capace di riscuotere un minimo di attenzione da parte dei potenti. Ci sono strategie che risultano obbligate, difese che si costruiscono a fatica, quando si è sotto assedio. E la cultura era sotto assedio, come dimostrano le meravigliose produzioni culturali di quegli anni, nate dalla resistenza, dalla tenacia, dalla passione vera. “Noi siamo come le olive” scriveva Boumil Hrabal parafrasando il Talmud in uno dei più bei romanzi che siano mai stati scritti, dal titolo paurosamente attuale: “diamo il meglio quando veniamo schiacciati.” Certo, una bella scocciatura. [il titolo: Una solitudine troppo rumorosa].

Quel periodo partigiano ha seminato nuove forme di cultura ma non ha generato una Costituzione. Al contrario, si sono unite in un matrimonio di convenienza due concezioni lasciate antitetiche della cultura: una sostanzialmente tradizionale e marcatamente assistenzialista, l’altra particolarmente spinta sul versante dell’impresa economica. Un matrimonio povero di dote da entrambe le famiglie. Nel frattempo, l’idea che per significare la cultura all’interno del contesto socio-economico dei nostri tempi fosse necessario quantificarla, si è fatta sempre più campo. E chi si occupa di cultura, è stato costretto nella maggior parte dei casi ad adeguarsi.

L’Anti-Elité

Non intendo, certo, tornare a una concezione élitaria della cultura. Tutt’altro. Elitaria è proprio la cultura generata dall’unione di un mai abbandonato approccio assistenzialista alla cultura (diamogli una mano) e di un mai bastevole peso economico del settore (si mantiene da solo!). Infatti, da un simile matrimonio, nascono figli sempre uguali. Anzi: sempre gli stessi figli. Che invecchiano, ma non lasciano il passo, né vanno poi tanto in cerca di eredi, dal momento che da mangiare basta giusto giusto per loro.

Né, si direbbe, questo ha generalmente reso la cultura sostenibile, fatta eccezione per alcuni esempi virtuosi, quasi sempre legati alla bravura di singoli individui. Insomma, passo dopo passo, per timore di non sopravvivere, la cultura si è infilata nella coda sbagliata. Che, in condizioni normali, le garantisce una vita dignitosa: fatta di guerra tra poveri, conflitti all’interno del sistema, invidie, borderò rubati, e altre amenità, ma tutto sommato dignitosa. Ma, in condizioni d’emergenza, la scaraventa in un baratro.

Sì, perché se sto nella fila dei produttivi tout court, di quelli che fatturano da soli 479 milioni di euro e hanno più dipendenti di tutti quelli impiegati nella cultura della mia Regione, quando arriva la batosta, chi si penserà di salvare in questa fila? L’impresa che da sola stipendia quasi 5.000 persone, o il Teatro con 31 dipendenti? Non ci converrebbe, a qualcuno verrà da dire, mandarli tutti e 31 a fare cappe? Domanda stupida. E risposta comprensibile: noi sui numeri non saremo mai forti come gli altri. Invece, a furia di parlare solo di numeri (e non è che non lo dobbiamo fare, anzi, dobbiamo essere i più virtuosi, perché sappiamo cosa significa la virtù, e dobbiamo sostenere l’economia, perché sappiamo quanto conti l’economia), abbiamo aiutato migliaia, milioni di persone a dimenticare il motivo per cui la cultura davvero esiste, al di fuori del fatturato che aggiungiamo a quello nazionale, e dunque di una funzione ancillare a un sistema economico che, in momenti di crisi, non ha alcuna voglia di curarsi delle ancelle

Il senso delle cose

Qualche tempo fa, una figura importante del mondo della ricerca, della cultura e del sapere italiano, Luigina Mortari, ha detto ad una conferenza che la cultura ha il compito di migliorare la società. Che i prodotti culturali che non lo fanno, possono anche essere derubricati. Una posizione ferma e onesta, su cui c’è poco da dire. Questo non significa che la cultura non debba essere venduta dal turismo. Ad esempio: un sito patrimonio dell’Umanità, sotto gli occhi vigili di persone competenti (ed ecco uno dei problemi), può essere custodito e gestito al meglio da un manager esperto e concreto, fruttando molti soldi, parte dei quali andranno a sostenere proprio la tutela di quel bene, e generando un indotto potente sulle attività del territorio. Allo stesso modo, un’attività culturale può essere trattata secondo piani industriali precisi, che ne garantiscono la sostenibilità, e dunque l’esistenza e la possibilità di generare ricavi. Ecco che, nel primo caso, la cultura serve al turismo, e dunque all’economia, mentre nel secondo caso l’economia e la cultura si reggono a vicenda. In entrambi, la cultura fornisce  un valore (quantificabile) che si aggiunge a quello eminentemente suo, che è quello del grado di civiltà maggiore rispetto all’esistente prima che arrivasse. Una grande opera d’arte rappresenta, infatti, questo: un aumento del grado di civiltà, che è facilmente misurabile in qualità: qualità delle relazioni, qualità del rispetto nei confronti degli altri, qualità del mio rapporto con mia moglie mentre la ammiriamo, qualità per il ragazzo che, incontrandola, scopre di aver preso una direzione non sua, qualità di critica di un sistema sociale, qualità che ci permette di addormentarci aspettandoci qualcosa di grande, il giorno dopo. È esattamente per questo che amo ripetere che la cultura è una cosa che si fa: perché bisogna viverne gli effetti.

Ci siamo spostati di fila, ed è stato comprensibile. Ma ci siamo rimasti così a lungo, che ora facciamo fatica a significare noi stessi, figurarsi il mondo. E mai come ora, il mondo ha bisogno di significarsi.

Un ruolo vero

In un mondo dominato in buona parte da una tecnica che s’è fatta oggetto di fede, la cultura deve più che mai ricoprire il ruolo di membrana attraverso cui il mondo passa, trovando i suoi significati. Dunque, erano anni che la cultura non serviva così tanto. Mai, come oggi, la cultura può essere definita un intervento sociale, un intervento civile. Un intervento capace di significare, di restituire, di elaborare, di dare il senso della possibilità che in realtà avevamo perso già da un pezzo, e i nostri giovani lo sanno. Non a caso, sono proprio i ragazzi, che fino a ieri sembravano annichiliti dallo standard che veniva loro fornito per immaginare il proprio futuro più o meno rassegnato, a rivelarsi oggi più pieni di vita che mai, rinvigoriti, capaci di lottare e cambiare le cose. Impauriti, certo, come tutti, ma emersi dalla fessura sancita dal taglio di questa pandemia. A loro, serve la cultura. Di questo parlava qualche tempo fa il fisico Guido Tonelli, durante un pranzo al quale ebbi la fortuna di partecipare, in una pausa del festival KUM! . Illuminato, ma soprattutto innamorato, parlava della combinazione tra scienza e cultura, di questa grande fonte di generazione.

Dunque, accanto al lavoro che stiamo portando avanti con alcuni colleghi bravissimi (Milano, Bologna, Venezia, Bari, Genova, Palermo, Firenze, Torino, Cagliari, Roma, Napoli) per proteggere i lavoratori di un comparto particolarmente fragile, va sviluppato il senso della necessità di questo comparto, non per via dei numeri di chi ci lavora, ma perché quelle persone, donne, uomini, tecnici, artisti, garantiscono un servizio sociale necessario, dove per servizio sociale si intende non solo l’aiuto in emergenza, ma la possibilità di crescere come individui e comunità. La civiltà, questa cosa di cui facciamo parte grazie al linguaggio che ci umanizza, vive grazie ai segni e alle parole della cultura. Che ha bisogno di un riconoscimento economico, della possibilità di strutturarsi in maniera più solida, e soprattutto di rispetto. Ma i primi a doverle questo rispetto siamo noi: facciamo qualche evento in meno, ma permettiamo a chi li costruisce di farlo bene, e crescendo; diamo ai giovani che hanno studiato arte, lettere, teatro, musica, per amore, uno spazio e la possibilità di ridisegnare loro il proprio paesaggio; permettiamo loro di costruire gli spazi e i tempi della nuova cultura e del nuovo spettacolo, anche ora, anche in tempi di fase 2, chiediamoglielo; non cediamo sulla qualità, ci sono già i social che danno la parola a tutti. Costruiamo un sistema integrato, che eviti sprechi, sovrapposizioni, convenienze dubbie, burocrazie che sembrano fatte apposta per rifuggire il cambiamento. Mettiamoci, tutti, la passione. Facciamo. Facciamolo bene. Facciamo bene.

Una tragedia, non è un’opportunità. L’opportunità la creiamo noi dopo, quando decidiamo di fare qualcosa, di ciò che ci è successo.