In attesa del Decreto che includerà provvedimenti sui luoghi e sulle attività di cultura, pubbliche e private, potrebbe essere il momento di fare un punto. Non definitivo, ma generale. Se non altro perché molte e molti chiedono notizie. Il quadro è complesso, in alcuni casi ambiguo, e molto difficile. Con un altro post, scriverò delle iniziative comunali nei prossimi mesi. Ora, propongo una visione d’assieme per chi sia interessato.
Come alcuni sanno, all’inizio dell’emergenza si è costituito un gruppo di Assessori alla Cultura di capoluoghi regionali (siamo 12). Questo gruppo ha chiesto alcuni interventi precisi, ottenuto un colloquio con il Ministro, spinto affinché si provvedesse a tutelare le maggiori fragilità del settore. Abbiamo raggiunto un risultato importante, con i Decreti ministeriali che hanno istituito fondi per determinate categorie non finanziate dal Fondo Unico per lo Spettacolo. Continuiamo a confrontarci ogni giorno, e a cercare le strade migliori.
Il nodo, sembra proprio questo: il riconoscimento, o meno, degli enti locali come soggetti capaci di vitalizzare e alimentare il tessuto culturale nazionale. E devo dire che, stando alle bozze che circolano del Decreto, ci avviamo verso un declassamento ulteriore degli enti locali, che purtroppo coincide – necessariamente – con il declassamento del tessuto socio-culturale dei territori. Che, a sua volta, produce un’imbalsamazione dell’offerta culturale di un Paese ancora amato, nonostante tutto, proprio per la cultura.
La dico più semplice: la situazione che stiamo vivendo mi induce a ritenere che sia possibile intervenire con tempestività e successo, attraverso poche azioni dirette, e semplici:
– la creazione di un Fondo vincolato alla cultura destinato ai Comuni direttamente, così come accaduto per il sociale;
– il sostegno a determinate azioni di carattere congiunturale: piccoli spettacoli diffusi; implementazioni tecnologiche laddove necessarie e site specific; produzione culturale, specie delle giovani generazioni, cosicché quando i negozi hanno le saracinesche ancora a metà, la fabbrica non smetta di inventare.
– l’avvio di un lavoro di pianificazione strategica nazionale, che coinvolga i Comuni e che effettivamente porti il servizio culturale ad essere inteso come un servizio pubblico, senza per questo finire nelle mani di un centralismo burocratico avvilente.
Si tratta di cose essenziali. Spiego perché.
La situazione economica dei Comuni non è nelle mani dei Comuni. L’emergenza ha fatto scomparire le entrate previste, e aumentato i costi. Tutti i Comuni italiani rischiano di collassare senza un intervento del Governo centrale. Va da sé che l’intervento ci sarà, e sappiamo che esso sarà inferiore a quanto richiesto (come sempre). Esso, quindi, servirà ad evitare il collasso, ma i Comuni saranno comunque costretti a fare i salti mortali, e di solito quando i Comuni fanno i salti mortali accade qualcosa alla cultura. Anche nei Comuni più virtuosi e lungimiranti.
Per fronteggiare tutto questo, considerando anche che i Comuni saranno privi dell’entrata della Tassa di soggiorno, sarebbe sufficiente istituire un Fondo destinato direttamente ai Comuni, vincolato alla cultura e, se si vuole, a specifiche azioni culturali (attività nei quartieri più fragili, piccoli eventi capillari, garanzia della sicurezza dei luoghi, tecnologia, giovani produzioni). Ma anche no: le città italiane sono molto diverse, e i Comuni sono i veri esperti del territorio che gli compete, e sviluppano specifiche politiche culturali. Non destinare un Fondo ai Comuni vincolato alla cultura significa, sostanzialmente, negare la validità delle politiche culturali territoriali e costringere le città a un lungo periodo di buio culturale, che avrà gravi ripercussioni sulle intere comunità. Infatti, come ho avuto modo dire altrove, la cultura è, oggi più che mai, una grande possibilità di riconquista della socialità e della relazione.
Anche le Regioni, nelle loro possibilità, potrebbero istituire finanziamenti volti direttamente ai territori, senza intermediazioni e senza procedure complesse, senza enti terzi sovraordinati, ma affidando agli enti locali lo sviluppo della produzione e della programmazione culturale, senza farsene carico in proprio. Si tratterebbe di una grande occasione di cucitura e di sistemazione di una filiera che a volte va, altre no. Ma questo è un altro discorso, e andrebbe, forse, fatto comunque. Oggi per oggi, sarebbe sufficiente un aiuto diffuso ai Comuni per sviluppare attività culturali che, giocoforza, dovranno essere ridimensionate e capillari. Alcune Regioni lo fanno, almeno in parte, altre no.
Ora, quello che si evince dalle bozze di Decreto è, invece, una spiccata centralizzazione delle politiche culturali, ma anche delle metodologie e degli strumenti culturali, cosa che appare abbastanza preoccupante. Sia dal punto di vista politico (i territori italiani sono il cuore della cultura italiana, non il contrario, storicamente e per evoluzione secolare), sia dal punto di vista economico (i Comuni sono quelli che, in percentuale, investono maggiormente nella cultura dei territori, e dunque privarli delle risorse significa privare i territori dei soldi che servono per fare cultura), sia dal punto di vista metodologico (mettere nella mani di un soggetto centrale e pubblico strumenti tecnologici, ad esempio, di programmazione culturale significa di certo rendere una struttura macchinosa, vittima della burocrazia, non competitiva sul mercato culturale). Non solo: escludere i Comuni dalle decisioni su riaperture, gestioni, organizzazione delle attività significa scavare un abisso colossale tra chi decide astrattamente e chi mette in opera giorno dopo giorno le cose. Ci è già successo, senza pandemia, con la vicenda di safety e security, cioè con la massa di protocolli che si sono avvicendati negli anni sulla sicurezza del pubblico spettacolo, senza mai diventare Legge organica e senza essere discussi con i territori, su cui è ricaduta come un martello (pneumatico). Vogliamo parlare delle conseguenze, per enti pubblici e operatori, di quel ginepraio ancora vigente?
Quello che modestamente mi auguro, da amministratore di un capoluogo comunque di dimensioni ridotte rispetto ad altri – e il confronto con i colleghi di Milano, Firenze, Napoli, Bologna, per dirne alcune, mi ha chiarito bene il livello di difficoltà in cui si trovano Comuni che vivono di flussi ingenti di persone – quello, dicevo, che modestamente mi auguro è che ci sia una sterzata verso i territori, perché altrimenti i problemi non saranno solo sul breve, ma anche sul lungo e lunghissimo periodo. Sterzata in cui i territori non devono essere intesi come soggetti sindacali che rivendicano e basta, ma come collaboratori, capaci di portare contributi concreti e ideativi alla cultura italiana, come, ripeto, è sempre stato nel corso della storia. Inoltre, quello che mi auguro è che sia dato modo alla cultura – che è sempre stata e sempre sarà la grande inventrice del mondo presente – di inventare formule ad oggi sconosciute, anziché imbrigliarla in scatole più o meno tecnologiche per farle fare sempre la stessa messinscena, come non fosse accaduto nulla.
Si può immaginare una piattaforma digitale unica nel Paese, gestita pubblicamente (dunque con tempi, modi, burocrazie, iter) o sarebbe opportuno incentivare scelte tecnologiche dei singoli territori (anche in base alle loro caratteristiche) e non sfruttare le grandi piattaforme già esistenti? Si possono riaprire i siti di spettacolo, facendo uscire i dipendenti delle società che li gestiscono dalla cassa integrazione o da altri ammortizzatori, rischiando che non ci siano i soldi per pagargli gli stipendi con teatri e arene al 20/30% della capienza? Appare ovvio che queste decisioni potrebbero essere sane in un contesto, e fatali in un altro. Non si tratta di idee sbagliate, ma di sistemi che vanno modulati a seconda di dove impattano. Dipenderà dalle dimensioni degli spazi di spettacolo, dalla tipologia di personale (pubblico, di società partecipata, in appalto), ma soprattutto dai contenuti che si intende mettere dentro i contenitori. Come pensare che la tecnologia, che oggi è endogena all’essere umano e non mero strumento o veicolo di diffusione, possa contribuire solo come una sorta di amplificatore, anziché partecipare al ridisegno della cultura contemporanea?
La risposta possono darla solo i Comuni, che si rendono immediatamente conto della concreta possibilità di erogare un servizio cultura decente, dignitoso e sostenibile, o meno, a seconda dei meccanismi presenti in quel territorio. Sarebbe sufficiente destinare un fondo agli enti locali, suggerire alcune destinazioni o vincolare addirittura il fondo a quelle destinazioni (apertura spazi di spettacolo/produzione/piccoli eventi/zone fragili etc.) e sono convinto che tutto funzionerebbe. Faticosamente, il che non è una novità, ma funzionerebbe. Avremmo, già dall’estate, una quantità e qualità di proposte in ogni città, su misura, e una quantità di aperture commisurate ai territori, e, anche, di sicuro, una certa dose di innovazione.
Come ho detto altre volte, la tragedia che è capitata non è un’occasione. Una tragedia non è mai un’occasione, la morte e la malattia non sono occasioni o opportunità. Sono tragedie delle quali, però, bisogna necessariamente fare qualcosa. L’Italia può fare qualcosa: rispondere metro quadro per metro quadro attraverso la cultura e la socialità. Oppure, far vedere al resto del mondo in mondovisione che apre un teatro, o un monumento particolarmente simbolico, e nel frattempo lasciare nell’ombra culturale i territori, le persone, gli artisti, i tecnici, e via dicendo.
Ritengo di sostenere cose ovvie, che condivido con la maggior parte se non tutti i bravissimi colleghi con cui mi sento quotidianamente: Milano, Torino, Bologna, Genova, Venezia, Bari, Cagliari, Roma, Firenze, Palermo, Napoli. Ognuno con la sua posizione e la sua competenza, dunque con mille sfaccettature, talvolta con opinioni diverse, ma tutti mostruosamente preoccupati per la piega che sta prendendo la fantomatica ripresa culturale del Paese.
Ritengo, però, che sia difficile davvero: il nostro Paese, che tanto fa vanto della sua cultura antica e moderna, non ha mai realmente puntato su di essa. Altrimenti, non avremmo fondato e chiuso Musei di continuo, non avremmo un sistema che cambia pelle ogni anno, festival che girano le città duplicandosi, inquadramenti professionali ambigui o inesistenti, l’idea che comunque un artista possa sempre fare qualche cosa gratis, ma soprattutto non avremmo una difficoltà reale, consistente, nel fare comunità, nell’essere comunità. Avremmo, da tempo, un sistema scolare e un sistema culturale più razionale, più sostenibile, senza superfetazioni e sovrastrutture che, spesso, non trovano ragione di essere.
Dunque, non posso che ammirare, e lo dico senza alcuna piaggeria, chi ricopre di volta in volta il ruolo di Ministro o di figura apicale del paesaggio culturale di un Paese che vive la cultura quasi sempre come un modo rapido per raccogliere consensi, anziché come pietra miliare della società. I Comuni non sono nemici di queste figure apicali: sanno quanto sia difficile, e vogliono aiutarle a ritagliare per la cultura uno spazio indispensabile, spazio che poi la cultura stessa penserà ad alimentare ed ampliare.
Oggi, mi sento di dire come certi allenatori: ricominciamo dai fondamentali, passaggi brevi, gioco di squadra, cresciamo piano piano fidandoci dei territori, dove la cultura non è mai morta, nonostante tagli continui, sovrastrutture spesso inutili, dispositivi di funzionamento che – spiace dirlo – non si capisce proprio perché esistano, se non per permettere a molti di non assumersi le proprie responsabilità.
Cultura e Coltura hanno il medesimo etimo. Non è un caso: facciamola crescere dalla terra. Prendiamocene cura. Bastano pochi gesti essenziali. E tanto Amore.