La mia vita in piazza del Papa è iniziata nell’Ottanta, quando con la famiglia ci trasferimmo lì. Rosi, che tutti chiamavano per cognome, come fosse – e lo era – un suo particolare titolo di nobiltà, stava all’edicola al mattino, e ricordo le mille volte che lo vidi scambiarsi due battute con mio padre. Avevano sorrisi simili, e i giornali sottobraccio.

Dall’edicola, scendeva sino al suo negozio in via degli Orefici, in realtà più simile a una piccola casa su misura, o a una grotta scavata nella pietra e piena di tesori. Lo faceva con il passo calmo che è tipico solo degli artigiani, di chi, cioè, nelle mani ha una ponderatezza che anno dopo anno si trasmette a tutto il corpo, e così contiene le sue formidabili passioni. Lui ne aveva eccome.

Era un uomo innamorato. Della famiglia, di cui parlava in assenza, nel suo negozio, spesso; del lavoro; dei gioielli, a cui sapeva dare nuova vita, nuove storie, nuovi corpi. Ma anche del mondo, che sapeva bene essere altro dal suo negozio-casa-grotta, e del quale era curioso e attento osservatore.

Ha sempre sorriso. Ha sempre avuto l’aria di saperne un po’ di più degli altri, sulla vita (e probabilmente era vero), ma anche di non volerne approfittare. Desiderava ciò che aveva, e questo era chiaro, e bello, e raro.

Da ragazzino lo incrociavo, due parole, con mio padre, con mia madre, mia sorella, solo. A volte mi fermavo, una volta che portavo il gesso ad una gamba caddi proprio davanti al suo negozio, naturalmente rise piano prima di aiutarmi. Ultimamente, ci era capitato di scambiare opinioni, perché nel frattempo ero diventato assessore di una città che lui profondamente amava – senza mai esserne geloso – e di cui amava parlare. Con ironia. Con saggezza. Con umiltà. Con consapevolezza.

Io, l’ho sempre considerato di un’altra categoria. Rispetto a tutti. Perché ci sono persone che incontri due minuti sulla strada, ci scambi due parole, e apparentemente senza una ragione, quando le lasci, trovi il mondo migliore di quello che credevi fosse.