Da qualche giorno si parla della questione della stazione marittima di Ancona. I toni sono anche accesi, il che non stupisce perché quando qualcosa si accinge a cambiare, tanto nella vita privata quanto in quella pubblica, si accendono i toni. Quello che stupisce, o perlomeno che stupisce me, è che di fronte alla trasformazione dell’area cittadino-portuale opposta a quella del porto antico – ma non meno importante dal punto di vista paesaggistico, culturale e di relazione porto-città -, in molti siano intervenuti per difendere una barriera al cui confronto le famigerate reti paiono piccoli steccati per bambini. Qualcosa mi può essere sfuggito ed è per questo che riepilogo una serie di fatti e di considerazioni, augurandomi di dare un contributo.

Lo stato dell’arte
Quello che abbiamo ad oggi, è un tratto di binario che collega la stazione centrale alla stazione marittima e per farlo attraversa l’area del Mandracchio, circumnaviga la Mole, passa la Dogana e si insinua nell’area portuale, dove i convogli finiscono la corsa più o meno sul retro della Banca d’Italia.

Si tratta di circa 45 convogli (un po’ meno d’estate) e di 6/800 passeggeri al giorno (400 al mattino): nelle ore di punta circa 60 passeggeri a convoglio, cioè poco più di mezzo bus. Questi treni, li conosciamo tutti, percorrono il tratto a passo d’uomo, e la cosa è anche abbastanza pittoresca. Al Mandracchio c’è un passaggio a livello, la cui chiusura dura 60/90 secondi. Davanti l’ingresso della Mole, invece, non c’è passaggio a livello: solo una ridda di pali che dicono di stare attenti, e quando passa il treno, lentissimo, suona la campanella tipica delle piccole stazioni di paese. Questi convogli sono pagati dalla Regione, quindi dai cittadini, una cifra che si aggira attorno ai 10 euro a chilometro (il trasporto pubblico locale, cioè i bus e i filobus, invece, costano 2,21 euro a chilometro).
Già questo stato dell’arte potrebbe generare lecite perplessità, e devo dire che per anni, e da semplice cittadino, mi sono sempre chiesto se un servizio del genere fosse giustificato: la stazione centrale di Ancona dista dal centro 1,8 chilometri e 6 fermate di filobus. Ma il dubbio dovrebbe assalire l’intera cittadinanza quando, per adeguare il tratto di ferrovia in questione alle direttive europee di sicurezza, si prevedono trasformazioni particolarmente invasive.

Lo stato dell’arte domani (con il tratto di ferrovia attivo)
Le direttive cui è necessario adeguarsi se si vuole quel tratto di ferrovia sono semplici e inappellabili. Punto primo: i passaggi a livello si devono chiudere simultaneamente quando un treno arriva in stazione centrale. Attendono, chiusi, che questo treno giunga alla stazione marittima, e si riaprono, quindi, solo dopo 7 minuti, sempre simultaneamente. Punto secondo: un passaggio a livello va posizionato esattamente all’ingresso monumentale della Mole Vanvitelliana, quello che affaccia verso Porta Pia. Punto terzo (e conseguenza del punto primo): tutte le auto e i mezzi, ma anche i pedoni, aspettano sette minuti, spesso con i motori accesi (pedoni esclusi, naturalmente) che i passaggi a livello si sollevino. Un’attesa accettabile, ma piuttosto singolare in pieno centro di una città, ammettiamolo. Punto quarto: i convogli non marciano più a passo d’uomo, come fanno pittorescamente oggi, ma a una velocità di circa 30 km orari. Altra cosa piuttosto bizzarra in quella che molti dicono debba diventare un’area frequentata del centro città. Punto quinto (e conseguenza del punto terzo): bisogna mettere delle barriere ai lati dei binari, dato che i treni non sono di gomma e chiunque può finirci sotto senza barriere adeguate, e morire. Tali barriere devono cingere la Mole da un lato all’altro, e proseguire sino alla stazione marittima: magari si fanno in rete, riciclando quelle tolte al porto antico. Mi si dirà che le direttive europee di sicurezza non parlano di tali barriere, ma mi sento di rispondere che chi facesse viaggiare un treno a 30 km/h in una zona trafficata da pedoni senza erigere barriere di protezione, sarebbe un delinquente.

In sintesi, con queste modifiche inappellabili abbiamo un convoglio che passa a trenta all’ora tra barriere alte come esseri umani mentre pedoni, auto, motocicli e camion attendono ai passaggi a livello sette minuti prima di poter continuare a camminare. Mantenendo i viaggi attuali, circa 50 volte al giorno per qualche decina di passeggeri a convoglio. Aumentandoli (c’è chi sostiene si debbano aumentare) diciamo, che so, 70 volte al giorno. In ogni caso, le barriere, i semafori, la segnaletica ferroviaria – che se ne frega delle emergenze monumentali e paesaggistiche, lo sappiamo bene – restano tutto il giorno e tutta la notte, non vengono montate e smontate ogni volta che lì ci passa un treno.

Un servizio fondamentale
Di fronte a trasformazioni di questa portata, una città non è chiamata a chiedersi, in prima battuta, chi ne viene danneggiato più degli altri. Una città è chiamata a chiedersi se il servizio sia davvero fondamentale, e se sia insostituibile. Infatti, se un servizio è davvero fondamentale, bisogna garantirlo, costi quel che costi: la città accetta un sacrificio veicolare, pedonale e paesaggistico; la città accetta di rimettere barriere da un lato dopo averle tolte dall’altro; la città è felice perché ha garantito un servizio assolutamente importante. Se così è, poche chiacchiere. Si fa e basta.

Allora, la domanda è una: si tratta, oggi e nel prossimo futuro, di un servizio fondamentale e insostituibile? La risposta, chiaramente, è no. Su questo immagino siano tutti d’accordo, ed è sufficiente riprendere qualche numero: una quarantina/cinquantina di passaggi al giorno per circa 600 passeggeri, con un costo a chilometro di circa 10 euro sostenuto dalla Regione (cioè dai cittadini), per un tratto attualmente coperto da una linea filoviaria segmentata in 6 fermate (il filobus impiega, per arrivare dalla stazione centrale a piazza Kennedy, circa 4 minuti), filovia che può essere implementata, nelle fasce orarie che riguardano i pendolari, con un costo per la Regione (e quindi per i cittadini) di 2,21 euro a chilometro, con un risparmio assolutamente considerevole e un servizio almeno equivalente.

Insomma, non sembra esserci un motivo al mondo per avere oggi un servizio fatto di 40/50 o più convogli che vanno a 30 km orari, almeno tre passaggi a livello chiusi per 7 minuti ad ogni passaggio, centinaia di barriere, decine di pali e semafori, centinaia di pedoni, auto, motocicli, camion fermi ad aspettare lungo le strade prospicienti il centro città. La cosa somiglierebbe a una vignetta di Quinò, l’inventore di Mafalda, che si divertiva a sintetizzare in un disegno la follia degli agglomerati urbani dei suoi tempi.
Allora? Sì perché, giunto a questo punto, mi chiedo quale sia la questione che suscita tanto ardore anche nei più ferventi difensori dei beni paesaggistici e dell’ecologia (che è anche ecologia sociale e della convivenza, ovviamente, senza le quali l’ecologia ambientale è monca), tanto che li ritrovo, con mia grande sorpresa, contrari alla soppressione della linea ferroviaria. Soppressione che tra l’altro non comporta rimozione dei binari, quindi, si sa mai, dovessero servire un giorno, lì i binari stanno, come nelle altre aree dell’arco portuale.

La metropolitana ferroviaria
Me lo chiedo, il perché della ritrosia, e mi imbatto nella questione della metropolitana. Cioè nel fatto che la linea ferroviaria attualmente attiva possa e, secondo alcuni, debba diventare una metropolitana di superficie che collega il centro di Ancona al resto del territorio. Questa è un’idea che gira da molti anni ed è utilizzata in molte campagne elettorali, come se, per analogia etimologica, dove c’è una metropolitana si sia autorizzati a vedere una metropoli.

Come ho detto, in molte campagne elettorali si è parlato di questa idea. Dico idea, perché non pare ci siano effettivi progetti, dove per progetto si intende un testo in cui si dice come si costruisce una metropolitana di superficie, a quale domanda di utenza fa riferimento, quanto costa a chilometro ai cittadini, quanti convogli devono passare al giorno perché possa essere funzionale e chiamarsi tale, a quale velocità dovrebbe andare per competere con i filobus che hanno una corsia preferenziale e con un parcheggio scambiatore come quello degli archi, dove puoi anche prenderti ogni mattino la tua bicicletta custodita gratuitamente. Insomma, è pieno di annunci di una metropolitana possibile e basta. Questa, che alcuni chiamano “visione” del futuro, è la principale ragione dell’opposizione alla rimozione della linea ferroviaria che va dalla stazione centrale di Ancona alla stazione marittima di Ancona.

Non sono un tecnico, quindi lascio ai tecnici di ragionare su come un binario ferroviario, con le sue caratteristiche, appunto, tecniche, possa diventare un binario di metropolitana, cosa della quale, profanamente, dubito. Mi chiedo invece alcune cose da cittadino, e da cittadino privo di patente quale sono. La prima: la stazione centrale dista dal Teatro delle Muse 1,8 km. Non è la stessa vicinanza che rende famosa la stazione di Firenze (1 km dal Duomo) ma certo è una breve distanza; la seconda: la stazione centrale è collegata al centro città da una linea filoviaria (1/4) che impiega circa 4 minuti ad arrivare al Teatro delle Muse, e ha il non trascurabile vantaggio di continuare la sua corsa andando a toccare i gangli della vita sociale e lavorativa della città (piazza roma, piazza Cavour, viale, passetto). Ok, non è una metropolitana, perché non ha i binari; ma ha i fili, è ecologica, ha corsie preferenziali e può essere implementata (soprattutto con la montagna di soldi che si risparmierebbe dall’eliminazione del tratto ferroviario in questione). Naturalmente anche il treno potrebbe garantire lo stesso servizio, basta scavare un tunnel sotto il centro sino al passetto, o stendere binari ferroviari lungo il viale; la terza: il parcheggio scambiatore degli archi si trova nel mezzo, tra la stazione centrale e la stazione marittima. Cioè, uno arriva in auto sino ad Ancona, e di sicuro non va a prendere la “metropolitana di superficie”, mentre prende il filobus (che avrebbe immagino corse ridotte, se ci fosse la “metropolitana di superficie”), o la sua bicicletta, o va a piedi. La quarta: parlando di biciclette, mentre si lavora al percorso che dal passetto arriva al Piano, ci mettiamo di mezzo pure un treno. Mi ricorda un caro amico che, quando giocavamo a biliardo e ci trovavamo davanti ad un colpo particolarmente difficile, con birilli e boccino ad ostacolarci, diceva “ci manca solo il cane che ti attraversa”…
Queste sono considerazioni banali, di un cittadino che ogni giorno quella strada la fa a piedi, ma con le quali tento di uscire dalla consolidata prassi della polemica tout court, che alla fine ci dice solo che è meglio aver ragione a parole, e non fare torto a nessuno nei fatti, cioè non fare nulla.

La botte piena…
In effetti, è usanza particolarmente diffusa, oggi, quella di affidarsi alla polemica anziché al dibattito, forme estremamente diverse di gestione della vita collettiva. Alcuni dicono sia colpa dei social network, il che equivale ad incolpare le ragazze con la minigonna di provocazione, ma questo è un altro discorso, lo tratteremo a parte. Nel caso del porto di Ancona abbiamo avuto un esempio di questa usanza, quando, parlando delle reti, in maniera non so se interessata ma certamente pretestuosa, qualcuno ha dipinto uno scenario fantascientifico secondo cui ci sarebbe qualcuno che “vuole le reti” e qualcuno che “non vuole le reti”. Un modo deleterio di affrontare i problemi, dato che sposta l’asse del discorso dal problema condiviso (le reti): di solito accade così quando ciò che interessa a chi parla non è realmente il problema, ma la polemica stessa, ragion d’essere di molti.
Voglio dire, e chiudo la parentesi, che nessuno sano di mente vorrebbe delle reti a dividerlo dal mare e che il problema non sta nel desiderio di qualcuno contrapposto al desiderio di altri.
Perché dico questo, rischiando di andare fuori tema? Lo spiego subito.

Quello del fronte-mare è un tema di grande interesse rispetto al quale di recente si è data una prepotente accelerata, grazie anche a un cambio di approccio: in mente una visione chiara, si procede modularmente, affiancando un intervento all’altro nel rispetto di una precisa filosofia, che è quella di riallacciare la città al porto e quindi al mare, preservando del porto il precipuo carattere lavorativo. Sì perché possiamo parlarne quanto vogliamo, ma al porto ogni giorno vanno a lavorare circa 3000 persone, e sappiamo che chi non lavora, poi prende nemmeno il gelato vista mare, a meno che non abbia un’eccellente rendita.

Questo nuovo approccio, che implica anche un lavoro progettuale sui fondi europei per i grandi interventi urbanistici, trova molti d’accordo su alcuni punti chiave: la restituzione del porto antico alla città; la valorizzazione del segmento archeologico che collega il porto a piazza Dante; l’evoluzione della Mole a contenitore culturale di portata internazionale; il recupero dell’area ex fiera della Pesca trasformata in complesso funzionale, aperto, moderno, al servizio di viaggiatori e cittadini; il recupero, anche “morale”, dell’area del Mandracchio, desiderio evidenziato dall’ampio target di cittadini e visitatori che hanno affollato eventi differenti come Tipicità e Portobello; la rivitalizzazione e riqualificazione che ne deriverebbe dell’intero quartiere degli Archi. Uno straordinario effetto domino, perseguibile passo dopo passo, se si mantengono tre cose: la mente aperta, il coraggio di decidere, il principio di sostenibilità. Oggi il mondo è fluido e cambia in questo modo, oggi le città sono movimento, organismi, persone, non più disegni inanimati di pontefici idealisti.

Questa visione dell’arco portuale e della città che gli s’addossa è condivisa e desiderata, con molte variabili importanti (per questo esiste il piano strategico), da gran parte della cittadinanza e soprattutto, pare, da molti di quelli che sostengono che nel contempo, in mezzo a tutto questo riqualificare, debba andarci un treno, e molti passaggi a livello, e soste di sette minuti, e barriere alte più di uomini molto alti attorno alla Mole e davanti al mare, e dlin-dlin-dlin e semafori con le sbarre per i pedoni, e fischi di locomotive e trentachilometriall’ora mentre si va ad una mostra, al mercato ittico recuperato, a una serata al molo dei pescherecci, al cinema, a studiare, a vivere, insomma, il nostro mare.

Ma come è possibile, mi chiedo quando leggo queste cose? Come è possibile che si voglia al tempo stesso questo fronte-mare (che non è il nostro solo fronte-mare) aperto e vissuto di svago e di lavoro, panoramico, percorribile, integrato con il resto dello spazio urbano, e tagliato orizzontalmente in due da un treno? Me lo chiedo perché non ho trovato – ma sarà certo colpa mia – argomenti di dibattito, ma solo di polemica. Perché in questo Paese, come diceva in tempi non sospetti un mio grande professore, siamo abituati a dire come devono essere le cose, ma poi a lasciarle il più possibile come sono sempre state.
Io non credo ci sia ecologia in quel treno.

PaAssessore