Qualche giorno fa sono intervenuto a una riunione di partner di un progetto internazionale. Dovevo illustrare a persone che provenivano da molti paesi europei i progetti con cui ci siamo inseriti nella rete di Comuni che praticano welfare culturale. Prima di me, nella sala conferenze del Museo Tattile Statale Omero, la grande Stefania Terrè ha raccontato il suo punto di vista di regista e attrice non vedente. Il tema è bello e qui di seguito posto un aggiustamento del mio intervento, per chi ne fosse interessato.

“Quando sento parlare di welfare culturale, mi spavento subito. Certo, la cultura fa bene. La cultura cura. La cultura produce benefici per le persone e può produrne ancor di più per le persone fragili. Ma mi spaventa, ogni volta, l’abitudine a considerare la cultura come funzione di qualche altra funzione. Come ancella di un core-business. La cultura serve per il turismo. La cultura serve per l’economia (che poi…). La cultura serve per il welfare. Sono tutte affermazioni vere. Ma le conseguenze dell’azione culturale non devono essere scambiate per le funzioni dell’azione culturale. Che la persona stia meglio se coinvolta nelle attività in un museo, è una conseguenza del museo. Il museo non esiste per quello. Ma si può fare quello solo dove c’è un museo!

Nel caso del Welfare culturale, inoltre, leggo a volte tra le righe una mancanza di rispetto nei confronti della persona fragile. Infatti, mentre è pacifico per tutti che la persona fragile tragga benefici dalla partecipazione alla cultura, si sottovaluta il beneficio che la cultura riceve dalla partecipazione della persona fragile. La verità è che la cultura migliora tutte le volte che ad essa partecipano le differenze. L’arte e la cultura crescono quando cresce la varietà di persone che possono praticarle. Stefania Terrè riceve qualcosa dal teatro quando lo pratica. Ma anche il teatro riceve da Stefania Terrè. I visitatori con bisogni educativi speciali di una mostra ricevono qualcosa dalla visita. Ma anche le opere ricevono qualcosa dal loro sguardo, o dalle loro mani e orecchie, e quella mostra non sarà più la stessa dopo il loro passaggio. Questo è un punto dirimente, che prendo a prestito anche da un intervento di Marta Cuscunà, artista straordinaria che (cito a memoria) fece notare durante un incontro cui partecipavo che mentre ormai la maggior parte dei teatri sono attrezzati per il pubblico con disabilità, non lo sono i loro palcoscenici. Diamo per scontato che quello può essere solo pubblico. Fragile.

Dunque, il Welfare culturale è una conquista vera solo se si distende su un orizzonte etico, e non tecnico-strumentale. La cultura è quel movimento etico che ci permette di superare la tentazione dell’accudimento. Di comprendere che la cura non è un congegno tecnico, ingegneristico, ma una pratica umana che ci connota come civili. Nel parternariato internazionale, Ancona ha indicato come attività legate al tema del welfare culturale due operazioni degli ultimi anni.

La prima, è il festival KUM. Perché è l’incarnazione di quanto ho appena detto: per fare un festival dedicato alla Cura, ci si è inventati un festival culturale. Non un simposio medico/tecnico, non un convegno clinico (tutte cose necessarie, ma diverse), ma un evento culturale che contiene la scienza, l’antropologia, la scrittura, e ovviamente ma non solo (e non soprattutto) anche la medicina e la clinica. Scegliere un ambito culturale per parlare della cura destituisce, quel tanto che serve, la tecnica da una posizione egemonica, e apre all’etica, alla morale, al sociale. Questa idea la dobbiamo a Massimo Recalcati, ideatore e direttore del festival.

La seconda è l’esperimento Mica Mole Social Food. Un gruppo di insegnanti di sostegno sviluppa laboratori di cucina, servizio in sala, accoglienza con ragazze e ragazzi con bisogni educativi speciali, all’interno di un polo culturale, la Mole Vanvitelliana di Ancona. Non si tratta di un bar con personale down, ma di un progetto di autonomia che mette la persona al primo posto e privilegia i laboratori, l’esperienza concreta, la socializzazione. Si fa presto a riconoscere la lezione che questo progetto eroga alle persone: aspettiamo un po’ di più il caffè; dobbiamo farci capire quando ordiniamo; dobbiamo prestare attenzione alla persona che ci sta servendo. Una lezione che ci portiamo a casa e che non riguarda solo i bisogni speciali, la nostra soglia di attenzione e di rispetto nei confronti di chiunque si alzerà. In questo caso, anche se apparentemente l’azione di Welfare è destinata alle ragazze e ai ragazzi con bisogni speciali, sono i clienti a ricevere un “servizio sociale”, trovandosi ad allenare muscoli di civiltà normalmente addormentati.

In conclusione, la frontiera del Welfare sociale è, come tutte le frontiere, difficile da frequentare. Offre grandi opportunità, ma anche rischi. Possiamo, certo, accontentarci di accompagnare persone con bisogni (e desideri) speciali al Museo, a una mostra o a teatro. E’ già un grande passo, perché in questo ABC siamo indietro, e saremo sempre indietro, è un contesto in cui si migliora per trovarsi a rincorrere ancora, non si finisce mai. Ma dobbiamo farlo all’interno di un orizzonte che non può accettare la cultura come un semplice strumento medico di benessere da applicare alla bisogna, altrimenti la cultura smetterà di migliorarci. Tutte, e tutti.”